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Venezia offre (anche ) "sodomia d'artista"

I Gelitin usano allo scopo una banana completa di buccia
«Non era una performance, tra noi lo facciamo sempre»

La catasta di legno al padiglione Gelitin della Biennale, all'Arsenale
La catasta di legno al padiglione Gelitin della Biennale, all'Arsenale
Inutile invocare la Buoncostume e men che meno la censura. Alla Biennale di Venezia succedono eccessi di ogni tipo e talvolta anche cose che non vorremmo mai vedere. Ma qui siamo in un territorio franco che accetta ogni sorta di trasgressione. Oppure no? Arsenale. Sono le 17.03 di ieri ed esco dal Padiglione italiano che, a suo modo, è una sconcezza surreale (non solo per colpa di Sgarbi, ma anche di quegli artisti bravi che non hanno saputo dire di no a un’ammucchiata che li stritola: il kitschartista Marco Lodola afferma che questa edizione è la rivincita dei peones). E la ciliegina sulla torta sono anche i due tronisti nudi (un uomo e una donna in carne ed ossa) messi lì tra l’erba. Mi dirigo al Giardino delle Vergini, e incoccio subito in un’altra sconcezza, ma di quelle toste. Ed è proprio vero che al peggio non c’è mai fine.
Bizzarrie alla Biennale: I GelitinBizzarrie alla Biennale: I Gelitin    Bizzarrie alla Biennale: I Gelitin    Bizzarrie alla Biennale: I Gelitin    Bizzarrie alla Biennale: I Gelitin    Bizzarrie alla Biennale: I Gelitin
IL COLLETTIVO IRRIVERENTE - Vengo attirata dal richiamo visivo di un gruppo di statue religiose dai colori fluo (la Madonna, San Pietro e il serpente, opera di Katharina Fritsch) e, soprattutto, dalla musica incalzante di una band hard rock. Situazione simil Woodstock ma formato mignon (lo spinello fa parte dell’ambience). Sul fondo, una montagnetta di tronchi di legno e lì sopra due che ballano quasi una lap dance, ma vestiti normali, con fare più annoiato che sexy. Un forno acceso che surriscalda l’aria (e fa un caldo boia) nel quale si fonde il vetro delle tante bottiglie di birra e vino bevute, in un gesto di riciclo molto greenmodaiolo. Questo è il «padiglione» open air dei Gelitin, un famoso, irriverente collettivo austriaco (fondato a Vienna nel 1978), invitato a questa Biennale. E cosa ti serve a merenda questo gruppetto di artisti? Nudo come un verme c’è uno di loro che si offre a un altro in una pratica di sodomizzazione con una banana (completa di buccia). La cosa va avanti per un po’ finché la musica smette e il pubblico astante applaude.
EDICOLE NOTTURNE - Ma che cosa c’è da applaudire come degli invasati? Siamo in un porno da edicole notturne, in giochi di nonnismo da caserma, nel voyeurismo più assoluto (anche Jeff Koons ha spesso indugiato sull’argomento ma sempre controllandone l’estetica). Non c’è neppure la sofisticazione intellettuale dell’Azionismo viennese, alla Nitsch, artista che pure nelle sue performances sparge e cosparge le persone di sangue animale in un rito purificatorio dell’esistenza umana, macchiata dalla sua colpevolezza eterna. Ali Janka, un componente fondatore dei Gelitin (vestito di un candido abito bianco da impiegato modello viennese versione estiva) commenta: «Non era affatto una performance. Questa volta abbiamo fatto davanti a tutti ciò che facciamo normalmente quando ci troviamo fra di noi a casa o in studio. Usiamo di tutto: carote, melanzane… Personalmente ho cucinato anche della pasta condendola con escrementi». E con l’urina i Gelitin hanno fatto pure dei ghiaccioli.
MISTIFICAZIONI - Che ogni cosa possa assurgere a fatto, espressione d’arte è una mistificazione bell’e buona, vidimata da una società dell’immagine che vuol superare se stessa in acrobazie, finendo risucchiata in un vuoto narcisismo di contenuti e nella nullità del messaggio. La lista di istituzioni e gallerie che sostiene questo progetto dei Gelitin alla Biennale è corposa e blasonata: ed evidentemente il pietoso spettacolo di ieri è da considerarsi più chic che choc. In questi giorni, ai Giardini della Biennale, circola un artista brasiliano, Fabio di Ojuara, con in testa un’asse del wc e la scritta now every shit is art (per meglio comprendere, fare copia e incolla in Google traduttore).
Francesca Pini